Dopo l’omicidio del sostituto procuratore di Trapani, Giangiacomo Ciaccio Montalto, in città non si respira di certo l’apparente serenità dei nostri giorni. È il 1983 ma quell’atmosfera terribile non accenna a scomparire neanche dopo diversi mesi perché la mafia trapanese dopo aver ucciso un uomo di stato si crede invincibile. Forse lo è veramente. Alcune delle indagini di Montalto passano presto nelle mani di un collega. Si chiama Carlo Palermo…
Questo magistrato era arrivato in Sicilia da poco. Prima si era occupato a Trento di un’indagine molto interessante dopo aver sequestrato tantissima morfina base che sarebbe dovuta arrivare a Cosa Nostra siciliana. La mafia l’avrebbe successivamente lavorata nelle raffinerie di Trabia, Carini e Alcamo, dove vi era la più grossa raffineria d’Europa, per spedirla poi in tutto il mondo. Al traffico degli stupefacenti però si aggiunge presto anche il traffico d’armi ed entrano in scena numerose figure legate ai servizi segreti e al PSI.
Come accade ancora oggi in Italia per molti giudici, Palermo viene messo sotto inchiesta dal CSM per aver indagato senza autorizzazione su alcuni parlamentari. Anche Craxi in una lettera del tempo scrisse che si augurava che il giudice venisse condannato. In questo clima infuocato, Palermo chiude in fretta l’inchiesta e si fa trasferire a Trapani. Come mai proprio questa città? Perché nelle sue inchieste aveva spesso incontrato lo zampino di Cosa Nostra trapanese. Sapeva dove indagare e cosa cercare e lo stesso boss Vincenzo Virga aveva capito fin da subito la pericolosità del magistrato per gli affari delle cosche.
Sono da poco passate le 8:30 del 2 aprile 1985. Il giudice aspetta gli uomini della scorta nella sua casa di Bonagia per andare in Tribunale. Davanti il cancelletto della villetta vi sono ora due auto. Un argenta blindata e una ritmo con la scorta. Il giudice sale sulla prima auto e per una fatalità non si siede dietro a destra (come di consueto) ma dietro il sedile del guidatore.
Le due auto ora vanno veloci verso Trapani. Bonagia e Trapani sono collegate soltanto da una litoranea che passa per Pizzolungo. C’è tensione tra gli uomini della scorta. Il magistrato si trova a Trapani solo da 40 giorni ma già è stato minacciato più volte. Sono le 8.50 e l’argenta del giudice ha imboccato il rettilineo di Pizzolungo.
Ora le due auto si dirigono verso una curva. Davanti a loro c’è un’altra auto che va veloce verso Trapani e una Golf posteggiata invece vicino un muretto. L’autista del giudice accelera, sorpassa l’auto che prima li precedeva e all’improvviso esplode tutto. Per qualche istante solo silenzio domina Pizzolungo.
Il giudice Palermo è illeso. Sedeva, per sua fortuna, dalla parte opposta all’esplosione e lo spostamento d’aria lo ha scaraventato fuori dalla macchina. L’autista e gli altri agenti di scorta sono tutti feriti, ma tra loro nessun morto. Presto ci si accorge però che vi sono frammenti metallici che non appartengono alle due auto.
Dove era finita l’automobile che prima del sorpasso precedeva quella del giudice? Su quella macchina c’erano 3 persone. Una donna al volante, Barbara Asta, stava accompagnando a scuola i suoi due gemelli, Salvatore e Giuseppe di 6 anni.
Pochi secondi prima dell’esplosione, Barbara aveva superato l’auto posteggiata imbottita con 20 kg di tritolo, mentre l’auto di Palermo stava superando entrambe. L’auto di Barbara così fa da scudo e viene disintegrata.
Barbara, Salvatore e Giuseppe vengono fatti a pezzi dall’esplosione. Il corpo della donna è a 100 metri da quella maledetta curva. E’ sventrato e senza un braccio. Il piede di un bambino nel cortile di una casa, il lobo di un orecchio sul comodino di una signora che aveva la finestra aperta. Ha fatto questo e tanto altro la mafia.
Trapani era, e ancora oggi purtroppo è, prigioniera della mafia, come ha scritto recentemente Attilio Bolzoni su Repubblica. Il sindaco di Trapani, Girolamo Fazio, nei primi mesi del 2008, ha annunciato però querele contro tutti quelli che infamano la sua città o la descrivono come prigioniera della mafia. Il sindaco di vent’anni fa, Erasmo Garuccio, il giorno dopo la strage, affermò invece che la mafia non l’aveva mai vista. Si spera soltanto che la politica in questi vent’anni sia leggermente cambiata ma certe affermazioni lasciano seri dubbi.
Nel 2004, in primo grado sono stati condannati Balduccio Di Maggio,Vincenzo Virga e Totò Riina quali mandanti della strage. Per quanto riguarda gli esecutori, in primo e secondo grado sono stati condannati Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo, Filippo Melodia. Ma la sentenza è stata cassata nel ’91 perché gli imputati non avrebbero commesso il fatto. Tra quei giudici c’era Corrado Carnevale.
Secondo gli investigatori ed i giudici di primo grado la cosca mafiosa di Alcamo che faceva capo a Vincenzo Milazzo organizzò l’ agguato contro il giudice Carlo Palermo perchè questi aveva ripreso i fili di un’ inchiesta sul traffico di droga e di armi che lo aveva portato già a scoprire (sempre nel 1985) la più grossa raffineria di droga d’Europa, costruita nelle campagne di Alcamo in contrada Virgini. Era evidente il pericolo rappresentato da questo magistrato per l’intero traffico di eroina proveniente dalla Sicilia verso il mercato americano.
Per Francesco Di Carlo, pentito palermitano, «la mafia doveva dimostrare di essere più forte dello Stato, si era fatto un gran parlare di questo magistrato che arrivava da Trento a Trapani, divenne obiettivo per questa ragione».
Giovan Battista Ferrante, altro ex picciotto di Palermo, ha ricordato quando qualche giorno dopo la strage fu testimone di un incontro tra il capo mandamento di San Lorenzo, Pippo Gambino, con il mazarese Calcedonio Bruno. «Gambino lo accolse facendogli un gesto, del genere per chiedergli “che cosa avete fatto”, e Calcedonio aprì le braccia per dire “è successo“». Non andava giù a numerosi mafiosi che per quell’attentato avessero pagato degli innocenti (una donna con i suoi due figli) e invece il giudice Palermo fosse rimasto miracolosamente illeso.
Nino Cascio, pentito alcamese, ha detto di avere appreso dal capo cosca Vincenzo Milazzo della strage, «mi disse che se l’avesse avuto lui in mano il telecomando non lo avrebbe premuto». A premere il timer fu però Nino Melodia, altro boss di Alcamo, in carcere, ma per altri motivi legati alla mafia.
Ancora oggi il movente fa discutere. Ed è attorno a Gino Calabrò, lattoniere e capo mafia di Castellammare, l’uomo che affiancò Messina Denaro nelle stragi del ‘93, e per questo sconta l’ ergastolo, che si ha la forte sensazione che si celi il «movente» sull’ attentato di Pizzolungo. Calabrò nella sua officina avrebbe preparato l’ autobomba, la Golf esplosa al passaggio del giudice Palermo. Il lattonienere di Castellammare è uno che risulta avere stretto mani importanti, massoni come quelli della loggia ISIDE 2 di Trapani, non tutti andati «ancora in sonno» e inoltre nell’attentato di Pizzolungo si ha percezione della presenza, come al solito, di massoni e servizi segreti deviati.
fonte: www.senzamemoria.wordpress.com
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